Malattie del cuore e dei vasi
Chiunque fosse stato chiamato a raccogliere il testimone del coordinamento della parte
Cardiovascolare del prestigioso Trattato di Medicina Interna edito dal compianto professor
Paolo Larizza avrebbe provato i sentimenti bivalenti dell’onore del compito e dell’onere
ad esso connesso. L’onore è nel vedersi attribuita la capacità potenziale di fornire
l’aggiornamento didattico necessario in un campo, la scienza delle malattie cardiovascolari,
che ha vissuto progressi straordinari negli ultimi 30 anni. L’onere è connesso
con l’oggettiva difficoltà – a noi ben chiara – ad assicurare un’informazione precisa,
puntuale e aggiornata in una disciplina diventata oggi essa stessa molto vasta. Nella
sua prefazione generale all’Edizione attuale, redatta dal prof. Larizza a cavallo del
nuovo millennio, il compianto Maestro tratteggiava gli straordinari progressi avvenuti
in vari campi della Medicina Interna. La Cardiologia, già da ben oltre 30 anni fa distaccatasi
dal tronco generale della Medicina Interna per assumere ruolo e dignità di disciplina
autonoma, ha vissuto anch’essa un progresso eclatante specie dal punto di vista
dei successi terapeutici. Ne voglio qui elencare alcuni, a semplice mo’ d’esempio e senza
alcuna pretesa di completezza, per far solo comprendere agli allievi più giovani, che ci
leggeranno, qualcosa della visione “tridimensionale” della Medicina, con l’aggiunta di
qualche spunto dall’interessantissimo elemento storico alla semplice enunciazione dello
“stato dell’arte”. L’elemento storico ha infatti il pregio di far percepire, di una disciplina,
il dinamismo culturale e l’evoluzione: un po’ come l’aggiunta della conoscenza storica
a un qualsiasi luogo turistico aggiunge enorme ricchezza all’apprezzamento compiuto
del luogo stesso.
Nel 1977, all’epoca della prima edizione del Trattato, in un comune libro di testo di
Farmacologia, utilizzato da uno studente di Medicina, al capitolo dei farmaci cardiovascolari,
la terapia dell’infarto miocardico acuto recitava “alleviare il dolore con
oppiacei, digitalizzare il paziente, fornire ossigeno, assicurare l’immobilità assoluta per
6 settimane”. Non era solo un problema italiano, perché il trattamento dell’infarto a
quei tempi era non tanto diverso da quello che poco oltre vent’anni prima aveva avuto,
in un caso che allora era balzato agli onori delle cronache mondiali, il Presidente americano
Dwight Eisenhower (Messerli FH, Messerli AW, Lüscher TF, Eisenhower’s billion-
dollar heart attack--50 years later. N Engl J Med. 2005;353:1205-7). Quelle raccomandazioni
erano semplicemente il meglio che si poteva all’epoca formulare. Il
bagaglio terapeutico allora disponibile fa sorridere al giorno d’oggi lo studente per la
sua scarsa efficacia e anche per il discreto grado di empirismo in cui era maturato. Non
esisteva la “Medicina basata sulle Evidenze”, e gli studi clinici controllati erano una
rarità assoluta. Aquel tempo la mortalità nella fase acuta dell’infarto era di circa il 30%.
Una prima “rivoluzione” cardiologica di quegli anni era stata l’istituzione delle Unità
di Terapia Intensiva Coronarica, che consentendo il monitoraggio del ritmo cardiaco
permettevano i primi tempestivi interventi sull’arresto cardiaco da cause aritmiche.
Con l’introduzione dei beta-bloccanti, che permettevano, tra gli altri effetti benefici,
di prevenire – invece che curare – una parte importante di complicanze aritmiche, la
mortalità nella fase acuta dell’infarto scendeva in quegli anni a circa il 15%. Nei pochi
anni successivi si assisteva a un’altra svolta epocale nella cardiologia, e in particolare
nell’interpretazione della patogenesi dell’infarto miocardico acuto: il ruolo primario
della riduzione del flusso coronarico a causa di una trombosi coronarica nell’infarto
acuto era dimostrato non solo da importanti studi angiografici e isto-patologici, ma
dalla dimostrazione finale del nesso di causalità, con la prova dell’efficacia di trattamenti
antitrombotici agenti sulle piastrine (aspirina) e sulla componente fibrinica del
trombo coronarico (fibrinolitici). Negli anni ’90 si è poi assistito allo straordinario sviluppo
delle tecniche di rivascolarizzazione coronarica transluminale (angioplastica,
prima con l’uso del semplice palloncino, poi con l’uso degli stent metallici). Grazie soprattutto
alle tecniche di riperfusione, l’attuale mortalità a 30 giorni dell’infarto acuto
è ora inferiore al 5%. In parallelo si è verificata la dimostrazione, datata 1994 con la
pubblicazione del famoso studio 4S, dell’efficacia delle statine, in grado di ridurre la
colesterolemia. Il cardiologo oggi, per questi ed altri progressi intervenuti, non è più
soltanto un fine diagnosta, in grado d’interpretare magari mirabilmente l’elettrocardiogramma
di superficie, ma poi in larga parte inerme nei confronti del paziente cardiopatico.
Oggi può agire, sia dal punto di vista medico che interventistico (termine non
esistente 25 anni fa!), e contendere al cardiochirurgo una parte sempre più consistente
di pazienti una volta affidati alla chirurgia come “ultima spiaggia”. Nel frattempo
la cardiochirurgia ha essa stessa compiuto passi straordinari in termini di efficacia,
adottando i condotti arteriosi nella rivascolarizzazione coronarica, e sviluppando in
parallelo le tecniche mini-invasive – senza circolazione extra-corporea – e la riparazione
delle valvole. L’elettrofisiologo si è trasformato, da diagnosta o impiantatore di
cardiostimolatori (pace-maker nel gergo anglofilo più corrente), in interventista lui
stesso con le tecniche di ablazione per le aritmie. La medicina preventiva cardiovascolare
si è arricchita di un bagaglio farmacologico eccezionale, questa volta accompagnato
da rigorose dimostrazioni di efficacia clinica. Altri settori hanno conosciuto
progressi importanti: la cura delle valvulopatie si è arricchita degli interventi percutanei
di valvuloplastica mitralica, e oggi si assiste all’impiego degli impianti percutanei
di valvole aortiche, che ridonano letteralmente la vita a persone giudicate in precedenza
inoperabili.
Tali progressi terapeutici hanno avuto due elementi straordinari alla base: da una parte
il maturare progressivo di solide conoscenze biologiche – si prendano ad esempi la conoscenza
del meccanismo d’azione dell’aspirina come farmaco antipiastrinico, con lo sviluppo
contemporaneo delle conoscenze sulle prostaglandine e sul trombossano (John
Vane e Bengt Samuelsson, premi Nobel per la Medicina nel 1982); o la scoperta delle
statine a seguito dell’elucidazione delle tappe del metabolismo del colesterolo (Joseph
L. Goldstein e Michael S. Brown, premi Nobel per la Medicina nel 1985); e dall’altra
un elemento di naïveté, di curiosità e di spregiudicatezza – vedi l’introduzione pionieristica
dell’angioplastica da parte di Andreas Grüntzig nel 1977: un misto dunque di
conoscenza e di genialità, che ha consentito il progresso, ora graduale, ora per salti, fino
all’attuale riduzione a meno del 5% della mortalità nella fase acuta dell’infarto e alla
riduzione globale della mortalità per malattie cardiovascolari nel mondo occidentale.
Queste cose sono anch’esse forse destinate a far sorridere chi ci leggerà di qui a
trent’anni, ma sono comunque la testimonianza di una percezione di sviluppo che
riempie oggi i cardiologi, e i cultori in generale di medicina cardiovascolare, di orgoglio
e di entusiasmo. Orgoglio ed entusiasmo che noi, che abbiamo anche il privilegio
e la responsabilità di servire come docenti, cioè di trasmettitori d’arte e di
scienza, vorremmo idealmente lasciare, di là dalle nozioni tecniche, alle generazioni
future.
RAFFAELE DE CATERINA
Dettagli Articolo
Tipologia: | Libro |
Autore: |
De Caterina, Dal Palù, Finardi, Venco
|
Pubblicato: |
2010, Opera in due volumi indivisibili di complessive 1630 pagine riccamente illustrati a colori
|
Casa Editrice: | Piccin |
ISBN: | 978-88-299-1944-4 |